ATTACCHI DI PANICO
Paura di morire o morire di paura?

Negli ultimi anni ho aiutato molte persone a guarire dagli attacchi di panico. Di solito il percorso di psicoterapia non è molto lungo, a dispetto di quanto si immagini o si tema, e i pazienti a poco a poco imparano a gestire le loro reazioni.
Fondamentale è capire cosa sta succedendo e perché.
Fondamentale è rassicurare sul fatto che di attacchi di panico non si muore – e dopo spiegheremo perché.

Per onestà intellettuale trovo giusto precisare che non è detto che i sintomi spariscano per sempre, perché nella vita le cose non sono mai date una volta per tutte e non esiste alcun mare che sia sempre quieto oppure sempre in tempesta.
Ricordiamoci, poi, che quello che ci fa paura oggi potrebbe non farci paura domani, e viceversa.
La vita infatti è abbastanza imprevedibile (questo concetto destabilizzerà molti di voi, ma bisogna farci i conti), e sottopone la nostra mente e il nostro corpo a sfide continue.
Dicevamo: non è detto che si guarisca per sempre, ma è altamente probabile che il paziente, dopo un percorso ben strutturato di psicoterapia, cambi il modo in cui si approccia al sintomo, inizialmente così spaventoso: diventi, insomma, più bravo a gestirsi, a leggersi, a trattare con più dimestichezza quel “mostro” che troppo a lungo lo ha tenuto in scacco, negandogli la possibilità di vivere a pieno la vita che voleva.

Parlare con i pazienti nella stanza di terapia permette a poco a poco di ricostruire gli eventi di vita che hanno portato alla formazione di questo disturbo: quando non si trovano le parole per esprimere la propria sofferenza, questa prende la forma del disturbo: è come se il panico rivendicasse uno spazio tutto suo, un diritto di esistenza attraverso una tempesta emotiva di sensazioni. È come se ci dicesse: e adesso? Farai ancora finta di niente? Io sono qui, non puoi più ignorarmi.
Dopo anni di esperienza clinica, ho notato che i pazienti che strutturano un attacco di panico lo fanno in precisi momenti della loro vita, quando solitamente sono in presenza di snodi critici che comportano il dover prendere decisioni.
Davanti a un bivio, si prova ansia: «dottore, io non so scegliere».
È tutto normale, è tutta vita che ci abbraccia. E che ci cambia.

Altre volte, invece, il panico viene a ricordarci che le nostre scelte non sono, in realtà, le nostre scelte: si tratta spesso di scelte “indotte” che altri, più o meno consapevolmente, ci hanno imposto spesso attraverso meccanismi molto sottili di manipolazione mentale. Quando accade questo, ci sentiamo soffocare sotto il peso della nostra stessa condiscendenza, e paghiamo il prezzo della mancata “ribellione”.
Viste dall’alto e abbracciando dunque una visione d’insieme, le cose hanno sempre un senso, perfino i disturbi che vengono a “visitarci” in una fase specifica della vita.
So che questo concetto sembrerà a molti di voi contro-intuitivo, ma in realtà il panico viene in un certo senso a salvarci, a darci una bella svegliata dal torpore in cui eravamo sprofondati.
È un campanello d’allarme molto utile. Se ci pensiamo bene, è come quando abbiamo la febbre: la febbre segnala semplicemente che c’è qualcosa che non va nel nostro corpo e che dobbiamo prenderci cura di noi stessi. E, nel caso del panico, questo qualcosa che non va è proprio la vita non-vissuta che lentamente sta soffocando e ammalando le parti creative di noi, facendoci smarrire il rapporto con la nostra stessa essenza, con la nostra vera identità.
L’energia che ci sforziamo di tenere a bada, che conteniamo così come gli argini contengono il fiume, straripa sotto forma di panico. Non a caso ho scelto questa metafora, perché quando chiedo ai miei pazienti di descrivermelo, mi dicono che il panico è come uno tsunami che tutto travolge.

Quali sono questi momenti critici dell’esistenza che tante volte danno il la al panico?
Se dovessi stilare una classifica dei “terremoti psichici” direi che al primo posto c’è la tanto temuta separazione: da un partner, da mamma e papà, da un ambiente lavorativo o dall’amica del cuore.
Anche la perdita e la malattia di una persona significativa (perfino di un animale caro) gridano con forza il loro diritto di farsi ascoltare e accogliere. E non dobbiamo dimenticare la prospettiva di una convivenza (o di un matrimonio) che spariglia le carte in tavola, imponendo trasformazioni molto profonde. In generale, dunque, tutte quelle situazioni che hanno a che vedere col famigerato tema del cambiamento.

Ultimamente, inoltre, si rivolgono al mio studio sempre più persone con problemi lavorativi che si ripercuotono sull’economia famigliare e, conseguentemente, sul benessere psicofisico. Anche il peso di un’enorme responsabilità, qualora non condivisa, può sfociare in questo terribile disturbo. Il panico è come un bolla che esplode.

Ma si può morire durante un attacco di panico?
È la domanda che più frequentemente siamo portati a farci, e la risposta è no.
I sintomi sono i soliti che tutti, bene o male, abbiamo imparato a riconoscere: tachicardia, sudorazione, paura di impazzire e/o morire, vertigini, sensazione di soffocamento, tremori, fastidio al petto, sensazioni di derealizzazione (percezione del mondo esterno come strano e irreale, sensazioni di stordimento e distacco) e depersonalizzazione (alterata percezione di sé caratterizzata da sensazione di distacco o estraneità dai propri processi di pensiero o dal corpo).
Quando l’organismo produce una reazione di panico, significa che sta rispondendo a uno stimolo psichico inconscio (mi sento in pericolo, ho paura di morire) e di conseguenza inizia a secernere ormoni come cortisolo, adrenalina, epinefrina e noradrenalina. Si tratta di ormoni che attivano il corpo, predisponendolo alla fuga. La tachicardia ha la funzione di incrementare l’afflusso di sangue ai muscoli: in questo modo il corpo è pronto alla fuga, all’evitamento di situazioni ritenute molto rischiose.
Dal punto di vista evolutivo, quindi, l’ansia è stata utile all’uomo per sopravvivere, lo ha preparato a lottare o a fuggire quando necessario.
Durante un attacco di panico, le persone hanno paura di morire soffocate, ma ciò non è possibile, a meno che non ci siano ostruzioni interne o l’aria è irrespirabile oppure ancora si è sott’acqua. Nessuno è mai morto di asfissia o soffocamento durante un attacco di panico. Al contrario, l’iperventilazione aumenta l’ossigeno nel sangue perché aumenta il numero di respiri che facciamo.
Il panico, inoltre, non ci fa morire d’infarto.
A differenza dell’infarto miocardico in cui si verifica la morte di un tessuto a seguito del mancato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa, nell’attacco di panico il cuore batte più velocemente e l’organismo libera adrenalina (che serve proprio ad “attivare” il cuore).
Nell’attacco di panico, inoltre, si verifica un senso di oppressione toracica più che un dolore vero e proprio. Nel caso dell’infarto, invece, il dolore è spesso lancinante, con irradiazione al braccio sinistro, alla mandibola e alla schiena, e ha una durata media di circa 30 minuti. Di solito gli attacchi di panico durano meno.

Perciò, non si muore di attacco di panico, i sintomi sono solo terribilmente sgradevoli.
Ciò tuttavia, il rischio di morte aumenta se, col passare del tempo e con il ripetersi delle crisi di panico, gli ormoni dello stress (cortisolo e adrenalina) inondano continuamente i vasi sanguigni e gli organi interni, andando ad alterarne la fisiologia. Da qui può derivare un serio rischio per la salute, soprattutto in soggetti in non perfette condizioni fisiche. Se la persona non fa nulla per curarsi e sottopone il suo organismo a continui stress causati da attacchi frequenti, allora sì che lo scenario diventa potenzialmente pericoloso.

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