CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Il diritto di dire no e il dovere di accettare un no

In questi anni abbiamo assistito ad un aumento esponenziale della violenza di genere: nella società attuale è un qualcosa che viene da molto lontano, dal nostro passato, dalla lunga disparità tra uomini e donne. La società sta cambiando molto rapidamente e il patriarcato millenario è in crisi (pensare che prima c’era il delitto d’onore e fino al 1973 l’omosessualità era considerata una malattia mentale), perché la donna si ribella, lavora, sceglie.
L’uomo fa molta fatica ad accettare tutto questo, soffre ma non ha strumenti per elaborare il suo dolore, non riesce a pensarlo, non riesce a starci.
Certi uomini è come se non avessero gli strumenti culturali e il sostegno sociale per superare un abbandono, per gestire un rifiuto. Perché nella società dei vincenti chi ha perso “la sua donna” è uno sconfitto.
Ed è proprio il rifiuto a far impazzire gli uomini, questo sacrosanto diritto che la donna ha di dire NO.
Perché le donne massacrate hanno quasi sempre la “colpa” di aver detto no.

Ci troviamo molto spesso davanti a ragazzi o giovani adulti competenti dal punto di vista cognitivo, magari anche colti, ma del tutto infantili dal punto di vista emozionale e affettivo: a volte hanno solo bisogno che l’altro li soddisfi.
Siamo tutti diventati leoni da tastiera, ma la vicinanza con l’altro ci terrorizza.
Basterebbe fare un piccolo esperimento: provate a prendervi per mano e a guardarvi degli occhi per soli 30 secondi. Vi sembrerà un tempo infinito, sarete bombardati da emozioni che il corpo vi rinfaccerà. Come? Attraverso il rossore, la tachicardia, il sudore, il fiato corto.
Il corpo ci smaschera.
I ragazzi imparano molto presto cos’è il sesso, però poi non sanno gestire i sentimenti.
Spesso gli adolescenti sono un po’ superficiali nel considerare le conseguenze delle proprie azioni. È tipico sentirsi onnipotenti, “vabbè, ma tanto che è successo?”, “non può capitare nulla di male”, e magari si sottovalutano i gravi pericoli legati al sexting.
La verità è che viviamo in una società in cui ancora adesso regna sovrana la doppia morale: un ragazzo è fico, una ragazza è una pocodibuono.

La violenza sta aumentando e mai come adesso ci sentiamo a un punto di non ritorno. Ci siamo interrogati su cosa poter fare, non solo in quanto professionisti socio-sanitari o docenti, ma anche in quanto cittadini e uomini: la risposta è che bisogna lavorare sulla prevenzione, cioè sui giovani che diventeranno futuri uomini.
Perché “prevenzione”? Perché non dobbiamo mai dimenticare che gli uomini violenti sono stati, prima ancora di essere violenti, bambini e poi adolescenti.
Adolescenti e giovani uomini con potenzialità di salute, fatti salvi casi disperanti legati a contesti molto svantaggiati. Prevenire significa “educare all’affettività”.

Cosa significa educare all’affettività? È mai possibile un’educazione degli affetti?
Si assiste molto spesso ad un riduzionismo del tipo “fa’ quello che ti senti”, “segui il tuo cuore e l’istinto”: ma dobbiamo tener conto che l’istintualità è potenzialmente anche molto distruttiva.
L’istinto non è solo l’amore e il sesso, ma anche l’aggressività (come d’altra parte ci ricorda il modello psicoanalitico con la celebre metafora dell’iceberg – l’inconscio ha una vita propria e niente è quello che sembra, verrebbe da dire che l’inconscio ha ragioni che la ragione non conosce). Ma assecondare la legge del godimento a tutti i costi (cfr. Recalcati, Il Complesso di Telemaco) ci sgancia dalle responsabilità e riduce tutto alla semplice emozione, eclissando la dimensione dell’affetto.
Qual è la differenza tra affetto ed emozione?
L’affetto rimanda all’incontro con l’altro, c’è qualcosa che mi muove verso; l’affetto non si può provare se non c’è un altro. L’emozione sì: vedo un film e mi commuovo, vedo un paesaggio e mi commuovo.
Essere orientati sull’affetto significa tener conto della presenza dell’altro, significa stare dentro una relazione. Quindi la domanda cruciale è: siamo individui orientati verso l’emozione o verso la relazione? Quello che conta è solamente quello che proviamo noi, il semplice soddisfacimento di un bisogno o stare in relazione con? Ecco perché l’affetto va, in un certo senso, educato: altrimenti si riduce all’emozione. Perché se non entriamo in questa dimensione relazionale, l’altro diventa un io da accerchiare, assaggiare e poi sputare. L’altro come qualcosa che diventa mio, fino alla tragedia del “se non puoi essere mia, allora non sarai di nessun altro”, quindi ti faccio fuori. Oppure: “desiderami perché io ti desidero”.

E allora qual è, da adulti, il nostro compito?
Quello di fornire ai giovani una sorta di contenitore antisismico delle loro angosce e sofferenze.
In primis dovrebbe essere la famiglia a farlo, ma può e deve farlo anche la scuola, perché la scuola si occupa della persona nella sua interezza.
Insegnare ai giovani a sopportare, a tollerare la sofferenza, senza “agirla”, valorizzando (cioè non minimizzando) la loro disperazione legata al rifiuto, all’umiliazione, all’abbandono.
In generale, aiutare le persone a trovare le parole per dirlo.
Tutti, prima o poi, viviamo l’esperienza dell’abbandono. Soffriamo per l’amore perduto, d’accordo: ma soffriamo soprattutto perché ci tocca fare i conti con noi stessi adesso che l’altro (l’oggetto d’amore) se n’è andato.
Dobbiamo far capire ai ragazzi che esistono delle alternative, che se stai soffrendo o hai perso la tua fidanzata non sei menomato e non soffrirai per sempre, stai semplicemente iniziando ad assaggiare la vita.
Se non c’è la famiglia, ci sono gli sportelli di ascolto nelle scuole, ci sono professionisti che si prendono cura della persona e della sua sofferenza.
Il problema non sono le emozioni negative, ma come gestire le emozioni negative, come imparare ad odiare senza distruggere, come tollerare la frustrazione. Non ricevere soddisfazione per una pulsione, sessuale o altro, fa male non per frustrazione della pulsione, ma per l’offesa ricevuta con il rifiuto: è questa offesa a colpire la stabilità del Sé (come ricorda Pier Francesco Galli). Io posso provare frustrazione e rabbia perché mi porti via il giocattolo (e questo va bene, ci sta), ma come gestirò questa frustrazione? Le butto in faccia l’acido?
Abbiamo molta paura di dipendere dall’altro, mentre se l’altro lo riduco ad oggetto, ci sentiamo onnipotenti, cioè perfettamente in grado di gestirlo.
E le donne? È possibile amare senza annullarsi, capire che un conto è sentirsi dire sei quello che voglio, un altro sei quello di cui ho bisogno?
Ma la costruzione di un amore, come diceva Fossati, deve per forza spezzare le vene delle mani? Siamo proprio sicuri che un amore tormentato è quello che ci meritiamo?
Scrive Ester Viola: “quello che ottieni dopo aver buttato il sangue per meritartelo, non è felicità, è convalescenza. È la fatica fatta per averlo, quell’amore, che lo rovina. L’alternativa si riduce a due: costruire il futuro, o incollare pezzi di quello che trovi e vedere se puoi arrangiare un presente. Se difficile fosse sempre la premessa di qualcosa di buono, saremmo tutti salvi”.
Come mai le donne sono disposte a sopportare? Cosa inchioda le donne al dovere o al desiderio di sopportare? Forse perché, come scrive Concita De Gregorio nel suo libro “Malamore”, il malamore è gramigna (elevata resistenza al calpestamento), cresce nei vasi dei nostri balconi.
Sradicarlo costa più che tenerselo. Dargli acqua ogni giorno, alzare l’asticella della resistenza al dolore è una folle tentazione.  

A chi affidare, dunque, l’educazione all’affettività? Alla scuola o alla famiglia? In linea teorica il luogo più adatto dovrebbe essere la famiglia, però anche nella scuola (oltre all’aspetto puramente nozionistico) ci si occupa della persona nella sua globalità. La cosa veramente importante è il dialogo con la famiglia; la scuola e la famiglia dovrebbero avere una connessione.
La famiglia ha un ruolo determinante nell’educazione affettiva dei figli, perché non dobbiamo mai dimenticare che i genitori o i fratelli o le sorelle o anche le nonne e gli zii, sono quelli che danno in primis il buono o cattivo esempio. Non esiste solo la genitorialità, ma anche la generatività, cioè prendersi cura dei figli degli altri come se fossero nostri figli.
Penso a certe famiglie dove sono le madri stesse ad educare i figli a un’idea di maschilismo strisciante, sottopelle, mimetizzato, dove la donna si sottomette al maschio dominante.
Educare a sopportare, fare esercizi di resistenza al dolore. Madri spesso felici se i figli maschi esibiscono forza, virilità o addirittura disprezzo mentre una figlia che ha tanti fidanzati è invariabilmente una puttana.
Conosco madri di adolescenti che danno della pocodibuono, con una certa nonchalance, alle ragazze “colpevoli” di aver lasciato i figli. Magari sono gli stessi figli che poi, una volta cresciuti, cercheranno di impedire alle mogli di andare in psicoterapia. Impedire di pensare: anche questa è una forma di violenza.
E i padri? Dove sono i padri? Dove sono i padri quando i figli trattano le madri come vere e proprie serve?
Nel momento in cui si decide di affrontare il tema dell’educazione affettiva, occorre una centratura sugli aspetti fondativi legati alla persona, legati al rispetto, alla responsabilità, all’appartenenza alla società, alle regole, al diritto di dire NO e al dovere di accettare un NO.
I giovani portano domande molto complesse e sofisticate su questioni della vita: ma gli adulti sono in grado di rispondere? Prima di tutto, quindi, occorre fare un lavoro su noi stessi, rispetto allo nostra autenticità e, quindi, credibilità.

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